Il 14 gennaio 1925 nasceva a Tokyo Kimitake Hiraoka che, nel 1941, assumeva il nome di Yukio Mishima. Il 13 di questo mese, con una manifestazione affollata di attenti ascoltatori, il centenario è stato ricordato a Roma presso la libreria “Horafelix”. Per l’occasione ho tenuto una conferenza che, per pudore non dirò come è stata accolta, alla quale hanno partecipato Alessandro Rosa, presidente “La Vecchia Colle Oppio” e l’editore di Fergen Federico Gennaccari, che hanno introdotto la mia prolusione, con la collaborazione del centro culturale “L’Arsenale” che l’ha registrata e ne proporrà nei prossimi giorni la visione. Non immaginavo tanta affluenza di pubblica e gli stessi astanti si guardavano l’un l’altro, un po’ sbalorditi nel ritrovarsi in una libreria così gremita.
Ma allora è vero quel che si dice e cioè che Mishima è diventato una vera star letteraria dopo anni di ostracismo e di denigrazione. Ogni libro che la Feltrinelli pubblica o ripubblica a scadenza quasi regolare è un successo. I numerosi articoli che appaiono sui giornali, tranne qualcuno che ancora fa finta che lo scrittore giapponese non esista, vengono letti e ripresi dai social. Le presentazioni dei suoi libri avvengono con continuità. E’ diventato, insomma, un “mito”.
Dopo la denigrazione, il ravvedimento. Il “suicidio rituale” di Mishima, il seppuku insomma, compiuto il 25 novembre 1970, lasciò sgomenti tutti coloro che lo appresero, compresi quanti non avevano letto mai neppure una riga. E la maggior parte biasimò, anche volgarmente, il gesto estremo. Curiosamente qualche intellettuale di sinistra, come Alberto Moravia che lo aveva conosciuto comprese la scelta la Mishima. Il 6 dicembre scrisse un lungo articolo per L’Espresso, utilizzato un anno dopo come prefazione ai racconti raccolti sotto il titolo Morte di mezza estate, pubblicati da Longanesi. “Morire da samurai” era il titolo, sormontato da un occhiello molto esplicito:” Che cosa ha voluto dimostrare al suo Paese e al mondo lo scrittore giapponese”. Al di là della tristezza che colpì Moravia, lo scrittore tratteggiò la figura di Mishima senza pregiudizi, pur non condividendone l’ideologia. “Mishima – scrisse tra l’altro – non era soltanto uno scrittore celebre. Era anche un ‘personaggio pubblico’, ciò che negli Stati Uniti si chiama public figure. Cioè uno scrittore che oltrepassava i limiti della letteratura e sconfinava, con la sua notorietà e la sua influenza, nel costume”. E come personaggio pubblico Mishima venne giudicato, non come romanziere, saggista, autore teatrale, regista, ma come una figura rappresentativa. Fu per questo che il suo gesto estremo mise in subbuglio il Giappone. E per quanto molto si fecero beffe di lui, egli mise nell’anima del suo Paese un interrogativo al quale mezzo secolo dopo nessuno è in grado di rispondere. Moravia scriveva che come scrittore Mishima era rappresentativo del Giappone dualistico e contraddittorio nel quale “accanto ad una rivoluzione industriale e neocapitalistica, coesistono abitudini, costumi e visioni del mondo tradizionali”.
La complessità del personaggio colta dallo scrittore italiano, che rimase impressionato dalla sua abitazione, dall’europeismo di cui trasudava. Probabilmente ne comprese lo spirito che non poteva avallare per formazione e gusti, ma in quel tempo di vigilia, Moravia fu uno dei pochi ad intuire la forza che promanava dalla “figura pubblica” non meno che da quella letteraria.
Il settimanale Epoca dedicò molte pagine corredate da inedite illustrazioni, a Mishima. L’articolo di apertura, anonimo, era intitolato “Il suicidio come strumento politico”, ma il pezzo forte era l’intervista di Giuseppe Grazzini, “Yukio Mishima una vita sbagliata”: non occorre leggere l’intonazione del pezzo per rendersi conto di quanto pregiudizio fosse intrisa. Anche l’Europeo pubblicò un ampio servizio di Guido Gerosa dal titolo “Harakiri”, con un sommario talmente esplicito da togliere il gusto di leggere il lungo articolo: “Il terribile sacrificio dello scrittore Mishima ha riproposto il tema millenario della ‘morte dei bravi’ giapponese, che risale ai troni di sangue del Medioevo nipponico e alla notte delle lunghe spade del 15 agosto ‘45”.
La stampa di sinistra sguazzò nel sangue di Mishima. Due reperti d’epoca: Paese sera e L’Unità. Il primo: “Macabro rituale suicida dello scrittore giapponese che rivoleva l’Impero”; il secondo: “Sanguinoso colpo di mano fascista a Tokyo. Scrittore assalta una caserma e fa karakiri”. Paese sera si preoccupava che il gesto potesse preludere ad un “rilancio del militarismo”. Mentre il quotidiano socialista l’Avanti, con poco senso della misura, arrivava ad ipotizzare che “l’auto-sacrificio dello scrittore-attore-drammaturgo, potrebbe fare esplodere manifestazioni violente di piazza da parte della piccola, ma agguerrita destra estrema, dall’esercito “privato” e organizzato da Mishima, il Tatenokai, poche decine di militanti estimatori dello scrittore che non avrebbero potuto far male ad una mosca al punto che l’Agenzia di Difesa offriva loro supporto per allenarsi alle falde del Monte Fuji. Il giornale socialista ebbe meno pudore dei suoi “confratelli” e titolò: “In Giappone si teme un’ondata di terrore nazionalistico.Il Popolo, organo della Democrazia cristiana “Mishima era un ribelle di estrema destra e un giapponese” (due misfatti, il più grave dei quali era senza dubbio il secondo). Insomma, un personaggio dal quale ci si poteva attendere di tutto. Perfino che fosse antidemocratico. Un delitto che esige la condanna. E così fu. Nell’articolo “Il crisantemo, la spada e la democrazia” venne emessa una condanna senza appello. Poco democratica, molto poco cristiana.
Ora sembrano pacificate le ombre che hanno avvolto per oltre mezzo secolo Mishima. E la manifestazione romana di cui vi informati sembra, almeno in Italia, essere stato il suggello di una “cavalcata nel tempo”, in quel “Mare della fertilità” che resta il capolavoro di Yukio Mishima.